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ECO DELLA COMUNITÀ PARROCCHIALE SAN FULGENZIO AL DISCORSO DI PAPA FRANCESCO ALLA DIOCESI DI ROMA DEL 14 MAGGIO 2018

Il breve percorso

Abbiamo stampato il discorso di Papa Francesco con le domande e lo abbiamo distribuito alle messe del 10 giugno invitando tutta la comunità ad una assemblea.

Il consiglio pastorale, tenendo conto della situazione della comunità e delle difficoltà della precedente assemblea dedicata alle malattie spirituali, ha selezionato quattro passaggi del discorso del Papa accompagnati da quattro domande. Una persona del consiglio ha proposto di lavorare in assemblea sull’esodo e su tre parole chiave: libertà, rischio e attesa. Pur non avendo percorso questa strada in assemblea, riteniamo utile allegare a questa relazione un appunto sul “paradigma dell’esodo”.

Venerdì 22 giugno 2018 nel tardo pomeriggio si è tenuta l’assemblea a cui hanno partecipato una trentina di persone. Il parroco Paolo ha fatto un’introduzione. Per mezz’ora siamo rimasti in preghiera alla presenza del Signore Gesù. Poi ci siamo divisi liberamente in quattro gruppi ciascuno dei quali assumeva un passaggio del discorso e rispondeva alla domanda corrispondente. Alla fine ogni gruppo ha brevemente relazionato a tutti gli altri. Di seguito le quattro relazioni redatte da quattro membri del consiglio pastorale.

Relazione dei quattro gruppi

  1. Al centro del Vangelo c’è la misericordia di Dio: cosa può fare la nostra comunità affinchè nessuno si senta fuori posto o inadempiente, ma piuttosto sempre amato?

Antonio, legge la domanda e l’introduzione e spiega come in Consiglio Pastorale è emerso che alcune persone si sentano un po’ fuori posto, non completamente a proprio agio nella nostra comunità. Si ricorda che talora le coppie che si presentano per richiedere il Battesimo si scusano perché non riescono a partecipare alla messa.

Daniela vuole ribadire, esprimere il suo grido che nella scorsa assemblea non è riuscita completamente ad esprimere. Racconta come ha invitato diverse persone a venire a questa assemblea ma alcuni non potevano perché indaffarati, altri proprio non si sentono di venire in parrocchia; forse intimorisce anche che qui sia richiesto molto, che la Parrocchia sia bella ma che si rimanga molto coinvolti; forse a volte siamo ‘pesanti’.

Citando il libro dei Numeri afferma che il ’mormorio’ non è sempre negativo, ma a volte fa bene perché la vita è difficile; è inoltre sorpresa che susciti spavento o rifiuto il fatto che ‘anche nella nostra Parrocchia ci sono dei problemi’.

Evidenzia che secondo lei serve maggiore presenza della comunità nel territorio a sostegno delle persone più fragili: anziani, handicappati, persone con problemi mentali e/o depressione (di recente, per riduzione dei costi, il Servizio Sanitario Nazionale sostituisce sempre più spesso la psicoterapia, basata sulla terapia della parola, con la terapia farmacologica, privando proprio coloro che hanno maggiore bisogno di relazione di una relazione importante).

Anche per le idee politiche, connotate da individualismo e/o salvinismo, diffuse c’è bisogno di una presenza nel quartiere che richiami all’apertura all’altro.

Annamaria denuncia un egocentrismo dei giovani (su richiesta di Emanuela specifica che per ‘giovani’ intende persone di 40/50 anni) che dopo tanti anni che frequentano e ti vedono non ti salutano, non ti riconoscono o sbagliano nome. Esorta a cominciare dal SORRISO e da uno scambio di parole.

Don Giorgio racconta di come nacque il gruppo anziani della comunità: la sig.ra Ines ‘interpellando’ varie persone raccolse l’esigenza comune e sentita, riuscendo ad aggregare gli interessati; al parroco e alla comunità fu chiesta ‘solo’ l’ospitalità in un luogo della parrocchia ma l’animazione e il progetto di quella esperienza venne sviluppato e gestito dal gruppo stesso. Da quell’esperienza sono nate belle amicizie e assistenza reciproca.

In modo analogo, dall’esigenza di un gruppo di genitori di partecipare con tranquillità alla Messa, è nato per un certo periodo un servizio di cura dei più piccoli durante la celebrazione della Messa domenicale.

Circa il momento, lungo un week end, dedicato alla Comunità (accennato brevemente da Antonio nell’introduzione ai lavori), suggerisce di prepararsi leggendo il Vangelo di Luca che più di tutti parla di misericordia. Accogliersi vuol dire ascoltarsi, prestare attenzione.

Secondo Laura c’è sia un tema di autoesclusione dovuto principalmente a motivi caratteriali (timidezza), che lei, ad esempio, è riuscita con il tempo a superare facendo forza su stessa, sia un tema di “gruppi” già formati, coesi che tendono a stare sempre tra loro e in cui può sembrare difficile entrare. Inoltre spesso si sperimenta una separazione tra vita personale vita parrocchiale e per mettere insieme entrambe ci è voluto del tempo.

Angelo accoglie suggerimento di Giorgio: leggere Luca per trovare delle proposte concrete, delle risposte a questa domanda.

Joan: i gruppi sembrano ‘così’ solo perché in realtà basta un sorriso per entrare in contatto; è una questione di sensibilità e di esercitarsi nell’ascolto.

Cecilia: molte persone si tengono distanti per paura di quello che si può chiedere loro se si avvicinano … come se dicessero “non chiedermi più di quello che posso darti”. Nel doposcuola molti sono stati inclusi solo facendo ‘una cosa insieme’ senza atteggiamento giudicante.

Inoltre ricorda che il Servizio è tale solo se è gratuito e la presenza in Chiesa/partecipazione ai sacramenti è importante/significativa solo se l’adesione è personale.

Rosa: in tutte le esperienze ciò che è più importante è la costanza, non perdersi d’animo, non arrendersi. Una COSTANZA COSTRUTTIVA: facciamo qualcosa insieme!

Annamaria: ricorda anche l’importanza del chiedere con semplicità e umiltà, in relazioni di tenerezza, reciproca.

Daniela riporta il discorso su come essere presenti nel territorio andando incontro ai più fragili.

Laura e Daniela possono fare nomi e cognomi di persone che vivono terribili solitudini.

Joan si chiede come fare ad accogliere senza essere invadenti.

Daniela sottolinea la priorità del COINVOLGIMENTO DEI PIU’ FRAGILI nella liturgia.

Giorgio sollecita a riprendere e sviluppare una proposta di Filippo: formazione per educare anche i più vicini al modo corretto di relazionarsi con coloro che soffrono di alcuni disturbi psichici.

Infine molti nel gruppo concordano su

  1. fare maggiore pubblicità ai servizi che funzionano (Vestiti di dignità, Servizio di accoglienza)
  2. lavorare di più sul sito web di San Fulgenzio
  3. maggiore relazione con le istituzioni

Ancora Daniela ci esorta a guardarci con l’occhio della misericordia di Dio: non lasciamoci abbattere dai nostri limiti!

Rosa: coltiviamo un atteggiamento di speranza e pazienza.

Daniela richiede 1 o 2 assemblee parrocchiali annuali per confrontarsi su come animare meglio la Liturgia.

Giorgio ricorda che ci sono iniziative che per essere efficaci devono uscire dalla Parrocchia per radicarsi sul territorio (come ad esempio il servizio di ambulatorio dentistico per i bisognosi: è una iniziativa nata in parrocchia ma ora opera fuori, la sua sede è altrove).

  1. Qual è il grido che sale dalla nostra città? Abbiamo orecchie capaci di ascoltarlo? Dio ascoltando cerca soluzioni; e la nostra comunità?

Ci siamo chiesti quali sono le grida che salgono dalla nostra città.

Abbiamo risposto che sono quelle dei migranti, dei Rom, dei poveri che vedono aumentare il divario con i ricchi, di chi subisce la corruzione, di chi è solo, di chi – soprattutto i giovani – non trova lavoro.

Ma fatichiamo a sentire le grida per due motivi. Innanzitutto perché non abbiamo orecchie grandi ma siamo concentrati soprattutto sulle cose da fare, sui nostri interessi e le nostre preoccupazioni. Poi perché le vittime spesso non riescono a farsi sentire e le grida che si odono sono quelle dei “carnefici” che si lamentano delle proprie vittime.

Cosa fare? Le risposte individuali possono essere quelle dell’impegno nel volontariato e nella politica.

Come comunità possiamo favorire l’ascolto delle “grida”, facendo informazione corretta sulle situazioni di sofferenza, sulle loro cause e su ciò che è possibile fare per migliorare la convivenza nella nostra città.

  1. Quali sono le donne e gli uomini che, come Pua e Sifra, interpretano il loro lavoro ogni giorno servendo la vita?

I lavori del nostro gruppo sono consistiti nella condivisione di storie vissute o comunque conosciute dai partecipanti, nelle quali ciascuno ha riconosciuto delle figure di donne e di uomini che rispondono alla domanda posta.

Vanda ha ricordato le figure di alcuni medici che circa trent’anni fa, in Sicilia, si recavano in situazioni di povertà per far nascere i bambini, senza farsi pagare ma anzi dicendo di utilizzare il denaro per comprare da mangiare a chi ne aveva bisogno.

Ha ricordato anche alcune persone che vanno a fare i servizi domestici senza essere pagate e portando invece da mangiare alle famiglie e alle persone assistite.

Ha ricordato una persona definita “di dubbia condotta” ma che si prodiga per chi sta male, ed un’altra persona che si è attivata per denunciare chi sfrutta gli altri in lavori eccessivi.

Ha poi parlato di se stessa, ricordando di avere incontrato ad Agrigento, su un grande viale, una ragazza che piangeva, di aver sentito che avrebbe dovuto darle una mano ma di non averlo fatto. Allo stesso modo, ha pensato di non poter aiutare una persona che aveva bisogno di aiuto di notte, per paura. Per queste mancate risposte lei tuttora non riesce a giustificarsi: pensa che, quando lo Spirito Santo ci suggerisce di andare in aiuto verso qualcuno, dovremmo essere più docili a rispondere a questa chiamata, uscendo dalle nostre sicurezze.

Anna ha raccontato la storia di Rita, conosciuta diversi anni addietro nel palazzo in cui si recava in visita ad un amico malato: dopo diversi anni, incontrandola nuovamente, ha saputo che questa donna e tutta la sua famiglia da molto tempo si prodigavano per aiutare un’amica che aveva sperperato tutti i propri soldi, senza giudicarla. Questo esempio le ha fatto pensare alla santità di una intera famiglia.

Ha parlato anche di una signora che andava in giro nelle case a fare le punture a chi aveva bisogno, ricevendo pagamenti in natura e lasciando poi le cose che così riceveva nelle altre case in cui – andando per fare le punture – si accorgeva che c’era bisogno.

Ha poi raccontato di essere andata alcune volte con sua zia a trovare una signora che aveva una figlia con handicap, a giocare con quest’ultima, per consentire alla madre di rilassarsi e chiacchierare per qualche momento.

Ha parlato anche di Alba, cresciuta da un padre onestissimo e anticlericale: tale è stata anche lei, generosissima; aiutava tutti a fare i conti. Quando una sua sorella si è ammalata di demenza senile, Alba si è dedicata a tempo pieno ad assisterla finché è vissuta, rinunciando anche ad andare al mare.

Paola ha raccontato di Nadia, conosciuta quando era ragazza durante una missione a Paderno. Questa ragazza aveva avuto una vita sfortunata, perché i suoi genitori erano emigrati e lei era rimasta a vivere al paese con la nonna: aveva dei modi da maschiaccio e in paese veniva presa in giro. Tra Paola e Nadia è nata una sintonia e la ragazza ha iniziato a partecipare ad un gruppo nell’ambito dell’organizzazione religiosa con cui Paola era andata lì in missione. Poco tempo fa, Nadia – ormai adulta – ha fatto avere a Paola la partecipazione della sua ordinazione nell’Ordo Virginum e poi le ha raccontato della cerimonia. Grazie a questo riconoscimento ufficiale, ora Nadia viene riconosciuta in modo diverso nel paese.

Liliana ha parlato del suo dentista, uomo mondano e professionista costoso, che una volta al mese si reca in periferia a curare sconosciuti che si trovano in situazioni di bisogno, portando con sé tutti i colleghi dello studio – quasi obbligandoli – e trasmettendo loro una testimonianza ed un modo di vivere la professione. Liliana ha accompagnato da lui la signora che lavora da lei come domestica, in quanto aveva bisogno di una radiografia che le hanno fatto gratuitamente; tuttavia la segretaria, avendo appreso che la donna aveva diritto all’assistenza della ASL, le aveva detto che non avrebbe più potuto usufruire gratuitamente delle prestazioni dello studio; il dentista però ha scelto di curarla gratis ugualmente.

Ha ricordato poi una signora non molto colta, che non frequenta la parrocchia ma che sa essere un punto di riferimento per tutti quelli che hanno bisogno.

Annagrazia racconta di Aglasia, una signora eritrea, ortodossa, che – venuta in Italia con la famiglia – fa lavori domestici. Separatasi dal marito, ha vissuto in una casetta con i figli, che poi sono cresciuti. Aiuta tutti quelli che si rivolgono a lei, anche andando a fare l’interprete negli ospedali e ad aiutare una signora anziana dopo il lavoro.

Grazia pensa a tante storie di persone splendide, tra cui la sua mamma. Spiega che al Centro di ascolto si incontrano ogni giorno persone che vivono in una dimensione per noi impensabile e c’è il rischio che scatti un atteggiamento giudicante. Per questo propone, come esercizio, di chiederci: come mi sentirei io al suo posto?

Paolo premette che gli capita di ascoltare molte storie. Ne ricorda alcune e ringrazia Dio per le testimonianze ricevute.

Una professoressa di religione, che insegna in una scuola non molto ben disposta verso la sua materia, va ben oltre il suo mandato, perché ha saputo creare delle ottime relazioni e spesso diventa un punto di riferimento in situazioni complicate.

Una Piccola Sorella di Gesù vive con altre due in Calabria, in una comunità Rom, ed ha imparato a vivere di piccolo artigianato come le altre persone della comunità.

Una giovane fisioterapista si spende molto nell’accompagnamento di alcuni ragazzi, con cui entra in una relazione che va oltre la sua professione.

Celeste riflette sulla possibilità che le è stata offerta di trovare all’interno della famiglia i primi esempi di operatori di pace.

Racconta poi la storia di Alessandra, adottata a 14 anni da Barbara, che ha messo in discussione tutta la sua vita per portare avanti questo progetto adottivo difficile, arrivando a separarsi dal marito che non è riuscito a sostenerne il peso. Alessandra porta con sé molte difficoltà legate alla sua famiglia di origine, alle violenze subite e al senso di colpa talvolta provato per averle raccontate, determinando l’allontanamento suo e delle sorelle; si è più volte messa in situazioni pericolose e Barbara, che non è una persona religiosa, sta dando tutta se stessa per aiutarla a venirne fuori, pur essendo consapevole che presto questa figlia potrebbe volersene andare per una strada diversa.

Nel gruppo è sorto l’interrogativo, sentito da più persone, sul non sentirsi pronti e disponibili a fare abbastanza. Abbiamo però anche pensato che forse non dobbiamo colpevolizzarci se non riusciamo a fare cose più grandi di noi, ma essere pronti a rispondere a quella che è la personale chiamata rivolta a ciascuno. Ognuno è una lampada accesa secondo le proprie possibilità.

  1. Un primo compito pastorale della comunità è la cura diffusa e moltiplicata delle relazioni, incardinata nel battesimo. Come è possibile realizzarlo pienamente nella nostra comunità?

Secondo alcune persone del gruppo esiste già una buona relazione tra i parrocchiani di più antica data che danno agli altri, soprattutto ai nuovi, testimonianza di accoglienza e di collaborazione all’interno della comunità.

Le persone meno frequentanti dovrebbero sentirsi più accolte e bisognerebbe impegnarsi di più nell’ascolto e in atti di tenerezza al di fuori della parrocchia.

Il gruppo sente la necessità di migliorare la comunicazione delle attività che vengono svolte all’interno della parrocchia sia tra noi che all’esterno. In questo modo si riuscirebbero a coinvolgere le persone che vengono alla messa la domenica e altri che conosciamo.

Per fare questo:

– si potrebbero mettere avvisi permanenti appesi in bacheca con i gruppi e il nome e il cellulare del o dei referenti;

– sarebbe opportuno creare dei cartoncini colorati da lasciare sui tavolinetti in chiesa con scritti gli orari delle messe e i vari gruppi con relativi nominativi e cellulari oppure tali cartoncini potrebbero essere la copertina della lettera mensile;

– su internet si dovrebbe dare comunicazione non solo dell’esistenza dei gruppi di tutto ciò che fanno di volta in volta.

Non si tratta di fare solo attività all’interno dei gruppi ma di stabilire relazioni e per fare questo è necessario che prima ci costruiamo dentro tramite la Parola e la preghiera sia individuale che collettiva.

La persona che viene in parrocchia o che andiamo a trovare chiede di essere vista, guardata, accolta e accettata così com’è, non per quello che pensa o che fa.  Quella persona va amata e benedetta, non giudicata. Ciascuno di noi dovrebbe lavorare su se stesso per accettare la diversità che non richiede giudizio. Le nostre paure spesso ci portano a creare barriere e inimicizia con il diverso da noi.

Il nostro impegno non deve solo facilitare la presenza dell’altro ma deve essere stimolante e stimolato dalla conoscenza dell’altro. Il rapporto così passa dalla formalità dei convenevoli alla profondità di una comunione di cuori e di anime. Ci vuole la consapevolezza dei propri limiti nell’incontro con l’altro e non dobbiamo avere l’ansia di centrare o voler risolvere subito i suoi problemi ma dobbiamo ascoltarlo ed essere accoglienti nei suoi confronti per essere accolti.

Forse la famiglia, la scuola e la parrocchia non sono state all’altezza dei tempi in questi anni e non è facile relazionarsi con i giovani che amano rapportarsi quasi esclusivamente sugli smartphone o su facebook.

Note sul paradigma dell’Esodo

Nella parola Esodo è compreso un Destino?

Nella grande narrazione di un popolo che dapprima geme silenziosamente in schiavitù, che poi subisce lo strappo dell’abbandono di quel che conosce per una condizione d’incertezza assoluta, che infine vaga nel nulla del deserto arrivando anche a rimpiangere le catene e la frusta di un tempo, in questa narrazione vi sono dei segnali obbligati, dei passaggi di senso prefissati, come suggerisce l’espressione “paradigma dell’esodo”?

Paradigma vuol dire infatti “esempio”, “modello” replicabile secondo uno schema.

Tre elementi credo siano essenziali per pensare ogni possibile “Esodo”, e per pensarlo come modello di ogni fuoriuscita da una condizione di asservimento. Libertà, Rischio, Attesa.

  1. a) Certo, la parola Libertà sembra essere così abusata da non poter dire più nulla. Secoli di scritti in ogni settore – filosofico, politico, economico, sociologico – ne anticipano e insieme svuotano il senso. Ma niente, in realtà, è più radicale e ricco di significato del messaggio del piccolo popolo ebraico, dell’esempio del “resto di Israele” in cammino nel deserto.

Infatti, secondo gli studiosi più avveduti, il pensiero e la stesura del libro dell’Esodo avrebbe avuto la precedenza (logica e cronologica) sulla stesura del Genesi, che sarebbe più tardo.

Ciò vorrebbe dire, quindi, che nell’intuizione del popolo ebraico, la questione della Libertà – la domanda cioè (che spesso non ha una risposta così facile) su come abbandonare quello che ci lega, ci appesantisce, ci schiavizza – non si pone dopo ma prima dell’atto creativo grazie al quale ciascuno acquista una certa identità. Il Dio degli ebrei è prima un Dio che libera e – solo dopo questo e per questo – un Dio che fa nascere.

Essenziale porre la questione della Libertà in questi termini anche per i cristiani. La prospettiva messianica, lo sguardo cristiano sul mondo e sulle cose, sono originariamente – e solo originariamente, non vi può essere un altro modo di intendere la questione – una prospettiva e uno sguardo che spezzano le catene. In questo senso vanno intese, secondo me, sia l’espressione biblica secondo cui Dio “fa nuove tutte le cose”, sia la bellissima espressione evangelica rivolta a Nicodemo: “rinascere nell’acqua e nello spirito”, “rinascere dall’alto”.

Si nasce – si viene creati – solo in quanto si esca da una condizione di schiavitù attraverso un deserto.

  1. b) Abbandonare quello che ci rende schiavi è un rischio, e un rischio non calcolabile. Coloro che nella scrittura sono sempre, anche, latori di un messaggio di liberazione – i Profeti – finiscono male e vengono rifiutati o addirittura perseguitati forse proprio per questo, perché spingono con forza a spezzare legami conosciuti per una condizione incerta e sconosciuta di esodo. Il Profeta è sostenuto da una voce e da un rapporto diretto con l’invisibile che al popolo manca.

Egli finisce per pagare il conto di questa mancanza.

Proprio nel discorso a Nicodemo, già ricordato, Gesù fa un riferimento diretto all’Esodo (“come Mosè innalzò il serpente nel deserto…”) e poi conclude con un giudizio terribile: “gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce…”

E’ la condizione umana di ogni tempo: la libertà (con tutta la luce accecante che essa comporta) non sempre è amata, perché è rischiosa. E’ una voce balbuziente – quella di Mosè – che a volte ci fa intravedere sprazzi di questa luce, costringendoci a fare qualche passo nella sua direzione. Ma mille volte tradiremo questa voce, ancora e ancora, fino a costringerla a tacere e spegnersi fuori dalla terra promessa.

La condizione di rischio che il libro dell’Esodo ci insegna, è il legame più forte tra ebraismo e cristianesimo e ne fonda la fratellanza.

Ancora una volta, lo sguardo messianico sulla storia e sul mondo, non può mai essere un’arma in più, un’assicurazione sulla vita, un asso nella manica. Il tempo messianico è un presente (e non un passato) storico, nel quale ogni cristiano è collocato nella stessa condizione, rischiosissima, di Gesù davanti all’adultera, interrogato dai farisei, pochi giorni prima di morire.

  1. c) Il popolo che accetta di compiere anche pochi passi verso la propria liberazione, è un popolo in attesa. Non è un popolo paziente; la pazienza è virtù individuale, che rimanda alla condizione di giusto, l’uomo che confida in Dio, Giobbe. E’ un popolo in attesa; la capacità di attendere deve essere necessariamente collettiva e dà vita e respiro alle comunità.

Si può essere impazienti, recalcitranti, sbagliare, forgiarsi un vitello d’oro perché Mosè non scende dalla montagna, ma tuttavia mantenere intatto il filo dell’attesa.

Lo sguardo che il popolo dell’esodo deve imparare a rivolgere verso Dio, è quello dei Salmi, quello connesso con la dimensione del kairos, del tempo dell’attesa, il tempo in cui le cose si compiono, il tempo di Dio. E’ lo sguardo dei Salmi che dicono di Dio che tiene i giusti come frecce nella faretra. Anche Dio sa attendere.

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